Il 15 marzo 1997 Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, intervenne a un Congresso sull’Aids organizzato nell’Università degli studi di Milano, promosso in particolare dalla dott.sa Antonietta Cargnel. Riportiamo di seguito il testo integrale del discorso del Cardinale, disponibile anche nel nostro Archivio digitale insieme a numerosi altri interventi sui temi della sofferenza e della malattia. Pur nella diversità delle situazioni, ci sembra un utile spunto di riflessione in queste settimane di preoccupazione per la diffusione del Coronavirus nel nostro Paese e di interrogativi su come vivere questa prova in un’ottica di fede autentica. 

 

Sono lieto di partecipare, pur se brevemente, a questo Convegno ad alto livello scientifico e rivolgo il più cordiale saluto al Magnifico Rettore dell’Università di Milano, professore Mantegazza, al Ministro della Sanità, Onorevole Bindi, agli illustri relatori e moderatori, agli organizzatori e a tutti i presenti.

Desidero ringraziare in modo particolare la dottoressa Antonietta Cargnel che mi ha amabilmente invitato a parlare su un tema che si confà al mio servizio di Vescovo: «Dolore, malattia e morte: il problema di un significato».

Sono dunque venuto come Vescovo, allo scopo di portare una parola di speranza, di aprire uno spiraglio di luce nel buio del dramma di cui l’uomo è protagonista.

Del resto io stesso, nell’ultima lettera pastorale alla Diocesi Parlo al tuo cuore, mi ero posto alcune domande fondamentali che ognuno di noi custodisce nel cuore:

«Come stanno insieme i dolori e le gioie della vita? come si conciliano le gioie autentiche di questo mondo con le prospettive di morte? perché la morte nel mondo? Perché, se è vero che Dio ci ha salvato, non ci ha liberato dalla necessità di morire? e, dietro la morte, tutti i dolori e le angosce dell’esistenza umana: perché questo immenso cumulo di violenze, ingiustizie e solitudini? Sembra che il non senso l’abbia vinta su tutti i fronti… Anche nel cuore del Vescovo abitano gli interrogativi che ci fanno umani, così fragili davanti alla vita, alla malattia, alla morte».

Ho pensato di svolgere il mio intervento attraverso cinque scansioni:

  • qualche considerazione generale sul tema assegnatomi;
  • una ricerca ragionevole del significato del dolore, malat­tia e morte;
  • il rovesciamento della morte;
  • la menzione di due testimoni di speranza;
  • tre conclusioni pratiche.

 

CONSIDERAZIONI GENERALI SUL TEMA

Il dolore e la malattia più o meno grave vengono troppo spesso e facilmente considerati come una perdita, un incidente di percorso che non doveva capitare, un che di intruso nella vita, perciò da minimizzare a ogni costo, da contrastare, da obliare. Quando si è sani ci si ostina a non pensare a eventuali malattie; quando il male ci colpisce, si fa di tutto perché la salute sia ritrovata il più presto possibile, mettendo poi la malattia fra parentesi.

Non si vuole affatto ricercarne il senso, non si vuole porre la domanda etica sul significato del soffrire, perché si teme che la risposta sia esigente, obbligante, che chieda alla persona di assumere comportamenti coerenti. Di qui la scelta di non parlare di dolore, di malattia e di morte, di rimuovere realmente oltre che verbalmente, buttandosi a capofitto nel lavoro e nei. divertimenti.

È vero che sono state elaborate, in prospettiva filosofica e religiosa, diverse dottrine sulla sofferenza, ma anch’esse costituiscono di fatto una rinuncia alla ricerca del senso: il buddismo, ad esempio, considera il dolore come la forma più radicale di rassegnazione che l’uomo deve vivere; l’edonismo annega la sofferenza nel piacere; lo stoicismo sceglie la strada dell’apatia di fronte a tutte le forme di sentimento. C’è poi chi legge la malattia quale occasione di lotta eroica attiva ed esterna: quanto più l’uomo lotta contro il dolore, tanto più si eccita e si autoesalta.

Tuttavia il dolore, nel campo dell’esperienza corporea, è la più inevitabile, la più evidente delle sensazioni; è una sensazione descrivibile in termini fisici, fisiologici e di vissuto psicologico di sofferenza. Entrambi, dolore e sofferenza, rimandano alla malattia che comporta sia la fatica e l’angoscia provocata dalla previsione della morte sia una serie di rinunce, di perdite, di distacchi.

La nota psichiatra americana Elisabetta Ktibel-Ross ha elencato alcune reazioni proprie dei malati inguaribili, reazioni che conoscete assai meglio di me: il rifiuto, l’isolamento, il risentimento, il cercare di venire a patti con la malattia, la disperazione e, infine, anche l’accettazione. Nella malattia l’uomo è costretto a riflettere sulla propria esistenza ed è indotto a rivedere l’immagine che si era fatto di sé nel tempo della buona salute. Sperimenta in modi diversi la propria corporeità, la sua relazione con gli altri, avverte la precarietà e la fragilità della condizione umana, e può giungere a rimettere in discussione il senso della propria vita chiedendosi: ma che vale vivere se poi si deve morire?

Soprattutto la malattia inguaribile annuncia, infatti, che moriremo, che stiamo per morire; anticipa il momento più importante della vita, a cui non vorremmo mai pensare perché ci riempie di paura. L’uomo non è mai preparato a vivere l’ul­timo tratto della vita; è disposto a salire la montagna, anche se è irta e difficile, non a compiere il balzo finale verso la vetta.

Il timore della morte, nodo cruciale della esistenza umana, ,a cui tutti gli altri si riallacciano, è un fatto esistenziale, bruto, ineliminabile; se da una parte la paura della morte è garanzia del vivere in quanto mobilita gli istinti di conservazione, di resistenza, di aggressività totale (pensiamo ai sopravvissuti delle guerre o dei campi di concentramento che guardavano in faccia la morte), dall’altra parte tale paura non si può combattere, dal momento che scatta da sé, è umanamente invincibile.

Chi è pensoso e attento alla storia del mondo e alle vicende degli uomini non può quindi sottrarsi alla ricerca del «perché» del dolore, della malattia e della morte. Se, nell’attuale contesto culturale di rifiuto della sofferenza, lo scienziato, il medico eludessero la ricerca del senso da farsi con la ragione umana, il significato della medicina e dei suoi straordinari progressi rischierebbe di trovarsi profondamente mutato e di trasformarsi in una lotta da giganti o in una aggressione tecnica e medicinalizzata contro il dolore, e niente più.

Ma è compito di tutti ricercare il perché del dolore umano, educare al senso umano del soffrire, aiutare a vivere questo senso, impegnarci a livello individuale e sociale.

Quante volte abbiamo sperimentato con sorpresa in noi e negli altri che il dolore può essere il grande risvegliatore dell’anima, perché fa nascere quell’essere che senza il dolore ignorerebbe di esistere e di valere enormemente! L’uomo ha dei luoghi nel suo cuore che soltanto il dolore fa venire alla luce, penetra e porta allo scoperto.

 

UNA RAGIONEVOLE RICERCA

Dicevo che la ricerca del «perché» del dolore e della malattia va compiuta con la ragione umana, poiché il soffrire può dirsi «umano» se è accompagnato dalla domanda di senso. Scrive in proposito Giovanni Paolo II nell’esortazione Salvifici doloris, del 1984:

«All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero mondo delle sofferenze, appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? È un interrogativo circa la causa, la ragione, lo scopo e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l’umana sofferenza, ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò per cui la sofferenza è propriamente sofferenza umana» (n. 9).

In altre parole, se il dolore e la malattia sono sempre faticosi da vivere, lo saranno doppiamente quando non se ne conosce il senso.

Una prima ricerca risulta insufficiente: è quella nella quale l’uomo pone la domanda a se stesso o ad altri uomini e che non ottiene risposte esaurienti, risposte che il nostro cuore, assetato di verità e di infinità, si aspetta.

La leggiamo nell’icona di Giobbe, personaggio a tutti conosciuto. Privato dei suoi beni, colpito da molti mali fisici a cui non trova sollievo, entra improvvisamente nell’esperienza dell’angoscia propria di chi è vicino alla morte, del deperimento di ogni possibilità umana, e vuole con tutte le forze capirne il senso, la ragione, il motivo.

Incomincia allora a ragionare tra sé e sé e gli amici, nel desiderio un po’ ambiguo di aiutarlo, gli fanno un discorso abbastanza logico per la mentalità di quell’antico tempo: il tuo dolore, la tua malattia, la morte prossima sono la conseguenza del tuo peccato.

Ma Giobbe, uomo giusto, si ribella a tale spiegazione, protesta la sua innocenza, a nome di tutti i dolori, le malattie, le morti di persone innocenti.

A questo punto grida a Dio, chiede di discutere con lui, di avere una risposta. Dio lo ascolta, lo conferma come uomo giusto e innocente, ma non gli risponde.

Permette però a Giobbe di cogliere il Suo divino mistero, di capire che Dio non ha da rendere conto di nulla, di intuire come nella sofferenza e nella morte vi sia un significato del tutto impensabile per gli uomini.

Il libro di Giobbe non ci offre ancora la soluzione del problema e ci invita quindi a proseguire nella ricerca.

La ragione umana si mette a trovare il «perché» dell’azione divina alla luce della sacra Scrittura, della parola stessa di Dio.

Già nell’Antico Testamento, l’Autore della vita sulla terra e della vita umana è Dio; la morte fisica fa parte della condizione umana creaturale, ha il suo significato in relazione con la vita.

Entrambe — vita e morte — esistono sulla terra, ma non con il medesimo valore. Ciò che vale è la vita, non la morte; ciò che conta è il dopo-morte, non la morte. «Dio non ha creato la morte… Egli ha creato tutto per l’esistenza» (Sap 1,13); «Nelle tue mani è la mia vita… non abbandonarla nel sepolcro» (Sal 16,5.10). La tradizione rabbinica amava distinguere due mondi: questo mondo e il inondo che viene. Polarizzando i credenti verso il mondo perfetto cui aspirano, la rivelazione giudaica fondava la speranza e il timore che, lungi dal paralizzare l’azione, la galvanizzavano; il futuro feconda il presente, dà senso alla vita e alla morte. Il salmista infatti immagina e spera che l’esperienza di comunione con Dio possa non finire e, a partire da qui, si fa strada lentamente nel popolo ebraico l’idea della risurrezione dei morti.

Va comunque notato che, se pure nell’Antico Testamento non mancano situazioni di morte serena, il sentimento più forte di fronte alla malattia e alla morte è quello dell’angoscia. In ogni caso l’uomo biblico rivolgeva a Dio le sue domande, e proprio questa fede lo spingeva a non perdere mai la speranza nelle promesse divine, lo stimolava a resistere al dolore fin dove era possibile e poi ad arrendersi al mistero di Dio, non al dolore. La resa suscita la resistenza: io sono più grande del dolore che provo perché trovo il segreto del mio resistere nell’arrendermi a Colui che mi ha creato, mi ama, dà senso a ogni esi­stenza e di ogni esistenza umana è la speranza assoluta.

Nel Nuovo Testamento irrompe l’evento Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Il Figlio, Gesù, che ci rivela l’Amore del Padre, la sua misericordia, il suo perdono, il suo andare in cerca dell’uomo che ha creato e vuole renderlo felice.

La vera risposta, ma silenziosa, che Dio dà alle nostre domande, è Cristo nato, morto e risorto. Gesù non elabora una teoria sul dolore e sulla morte, non si preoccupa di spiegarci il motivo di queste realtà umane, ma vive in sé tutti i dolori del mondo e accetta di morire, tra le angosce, come tutti gli uomini. Non ci dice subito che il dolore è un valore; ci insegna piuttosto che è sbagliato respingere Dio e la sua fedeltà d’amore all’uomo in nome dell’esperienza del dolore, della malattia e della morte. In Cristo possiamo leggere il senso pieno della vita e della morte di ogni essere umano.

 

IL ROVESCIAMENTO DELLA MORTE

Ci chiediamo preliminarmente: che cos’è la vita?

Si pensa e si scrive talora che la vita umana è per i cristiani il valore supremo; è un modo di esprimersi per lo meno impreciso. La vita che nei Vangeli ha supremo valore non è la vita fisica e nemmeno quella psichica, ma la vita divina quale comunicazione alla vita stessa di Dio. È questa la vera vita che Gesù attribuisce a sé e di cui ogni uomo e ogni donna della terra sono chiamati a essere partecipi già da ora e, pienamente, dopo la morte fisica. L’evangelista Giovanni, che sottolinea molto il tema della vita, usa il vocabolo psyché per indicare la vita naturale o fisica, che si conclude con la morte, mentre usa il termine zoé — vita — quale simbolo di uno speciale dono di Dio, del dono per eccellenza che è la «vita divina». C’è in ciascuno di noi una vita biologica, una vita psichica che ci permette di aprirci alla relazione con le cose e le persone mediante gli impulsi e gli stimoli, una vita di relazione più profonda — propria

di chi entra in contatto con l’affetto, il dono di sé, la vita di famiglia — e, al quarto e supremo livello, la vita divina a cui i precedenti livelli sono finalizzati.

In tale senso la vita fisica è importante; in quanto vita terrena non è l’ultima e comporta gioie e dolori, salute e malattia, però è sempre preziosa quale via alla vita divina, eterna. Al di là dell’ultimo ostacolo che è la morte, ci attende la salvezza, il superamento della condizione creaturale, la vita piena e definitiva in Dio. Senza la morte fisica non potremmo accedere alla vita vera, all’incontro con Dio.

E tutto questo perché Gesù si è fatto uomo come noi, ha assunto in sé i nostri dolori, le nostre malattie, ha sperimentato la tragicità e l’impotenza umana di fronte alla morte, ha gridato dalla croce a Dio che in quel momento non gli ha risposto e, insieme, si è abbandonato al Padre con la massima fiducia. In tale singolare perfezione del dono gratuito dell’amore di Cristo per Dio e per gli uomini, di un dono talmente libero da esprimersi nell’accettazione di morire, sta l’evento salvifico della nostra vita e il rovesciamento della nostra morte.

C’è una speranza che va al di là del buio della notte, una speranza dell’impossibile ed è la fede nel mistero pasquale di Cristo: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Partecipando alla sofferenza di Cristo, il credente sa di partecipare pure alla pienezza della sua vita di Risorto.

E non soltanto Gesù, con la sua passione, ci libera dal male radicale della morte, del peccato, di ogni altro male, ma dà pure significato a ogni dolore, a ogni malattia: essi sono segno e strumento di salvezza.

Così possiamo superare la paura della morte e della malattia; prendendo maggiore coscienza della nostra fragilità, della nostra dipendenza da un Altro che è Amore e Misericordia, possiamo compiere l’atto supremo di fede in Colui che ci attrae là dove non saremmo capaci di andare.

La croce di Cristo si impone dunque come centro assoluto della storia. E la fatica a credere che un Dio sia morto in croce —scrivevo ancora nella mia lettera pastorale —è la riprova della necessità di questa morte. Il cristianesimo non è la risposta banale alla domanda del dolore e della morte, una risposta che giustifichi tutto o tutto copra sotto l’incomprensibile giudizio divino. Il cristianesimo è la lectio difficilior, la via più difficile, che prende sul serio la condizione universale di dolore, di peccato, di morte, e proprio in tal modo annuncia la compassione di un Dio che si fa carico di questa morte e di questo male per sollevare e salvare ciascuna persona umana.

Grazie a Cristo, dolore e morte non sono più un sinistro. destino cui piegarsi senza comprendere; l’amore si è fatto dolore, perché il dolore diventasse amore, e la morte è il luogo stesso dell’amore e della speranza.

 

DUE TESTIMONIANZE

Brevissimamente menziono anzitutto la testimonianza di fede e di speranza data da una persona vivente che, prima di iniziare il lavoro tra i malati inguaribili, non credeva nella vita eterna. Si tratta di Elisabetta Kübler-Ross, già ricordata sopra. Alla domanda: «che cosa significa oggi per lei l’accettazione della morte?», ha risposto: «Per me significa essere pronta a morire in qualunque momento mi toccherà; significa cercare di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo; significa la speranza di avere mille altri giorni come questo». Ora infatti, ella crede nella vita divina «oltre ogni ombra di dubbio».

* Un secondo testimone è uno dei più importanti cardinali degli Stati Uniti, Joseph Bernardin, morto il 14 novembre scorso, Arcivescovo di Chicago e, per me, un carissimo fratello e amico. Nel 1995 gli è diagnosticato un cancro al pancreas e i medici gli dicono che ha pochi mesi da vivere. Esperto del dolore e della sofferenza, si fa da quel momento prossimo al. maggior numero possibile di malati terminali, li avvicina e li accompagna. «Ho avuto momenti di disperazione dopo le dosi massicce e inutili di chemioterapia. Ho pianto senza capire di fronte a una bambina di cinque anni morente di cancro. Ho chiesto per me e per gli altri: “Perché, Signore, perché?”… Ora la mia preghiera è che io possa usare il tempo che mi rimane e. il benessere spirituale che mi è stato concesso positivamente, in modo di essere di beneficio agli altri. Aspetto con serenità la fine della mia vita terrena e spero di insegnare come morire». Due mesi prima della morte aveva detto sorridendo ai giornalisti: «Sono cresciuto con tre grandi paure: quella del cancro, quella della morte, quella di poter essere un giorno accusato falsamente. La sorte ha voluto che le dovessi affrontare tutte e che, all’improvviso, scoprissi di non avere più paura. Credo che tutto questo sia dovuto alla fede… le mie preghiere mi hanno reso più forte di quanto pensassi di essere…».

Nel telegramma di condoglianze per la sua morte, Giovanni Paolo II lo ha definito «testimone di speranza di fronte al mistero della sofferenza e della morte».

 

CONCLUSIONI PRATICHE

Vorrei concludere con tre indicazioni pratiche per chi è chiamato a servire i malati inguaribili, specialmente i malati cli Aids.

  1. La medicina, che non ha il potere di eliminare la sofferenza umana e tanto meno la morte, deve certamente continuare a lottare efficacemente contro il dolore fisico, talora limitante la libertà e la vita spirituale. Nello stesso tempo occorre aiutare il paziente a resistere al dolore, a non chiudersi in ‘ se stesso rifiutando ogni tipo di sollievo e di cura.

Così il malato imparerà ad arrendersi non al dolore, bensì a un disegno che viene dall’Alto, al primato di Dio nella vita e nella morte, a quella vicinanza strana di Cristo Signore che sembra una lontananza, una distanza, ma è di fatto una presenza continua e reale, una com-passione del dolore umano.

  1. Il dolore, la malattia e la morte hanno senso sempre e solo in relazione al significato della vita. E la vita è comunque un bene, un valore, un dono grande; un dono di Dio che, attraverso il dolore, la malattia e la morte, ci rende partecipi della sua Vita senza fine, della sua pienezza d’amore.

Ne segue che il senso più vero della vita umana sta nell’amore, e la capacità di amare donandosi agli altri superando il proprio egoismo dà alla vita un significato morale.

Bisogna perciò educare il malato al senso umano del dolore, a trasformarlo in dono. Diceva Giovanni Paolo II, a un congresso mondiale di medici cattolici, del 1982:

«L’esperienza insegna che il malato svela esigenze che vanno ben oltre la patologia organica in atto. Dal medico egli non si attende semplicemente una cura — che del resto, prima o poi, finirà fatalmente per rivelarsi insufficiente —, ma il sostegno di un fratello, di una sorella che sappia partecipargli la visione della vita, nella quale trovi senso anche il mistero della sofferenza e della morte».

E io leggo, proprio nel dramma dell’Aids, un’occasione formidabile per chi — medici, infermieri, familiari — è chiamato a stare accanto al malato, ad accompagnarlo, a farsi carico di lui e del suo dolore, a fargli balenare, con parole o nel silenzio, una luce di speranza che squarci la pesantezza dell’oscurità. Un’occasione propizia per realizzare quella umanizzazione della medicina, che tanto si desidera e poco si può vivere.

  1. La speranza cristiana non nasce da postulati filosofici, e non si fonda neppure sull’anelito dell’uomo verso la vita, la verità, l’infinito; il fondamento è Cristo Gesù, Figlio di Dio incarnato; egli, penetrando nella storia e assumendo la nostra mortalità, non cessa di essere Dio e per questo irradia l’umanità mortale con la sua divinità immortale.

Ciò significa che, misteriosamente, il dolore e la malattia possono costituire, per il malato, un momento privilegiatissimo di incontro con Dio da cui tutto viene, tutto dipende e a cui tutto tende e tutto ritorna.

Ne segue che chi vive accanto al malato, non soltanto può aiutarlo a pregare, a resistere alle tentazioni, a superare il timore della morte, ad abbandonarsi al Signore, ma può venire educato dal malato stesso al senso della vita e della morte. Sono tanti i casi che vorrei citare al riguardo, proprio di giovani e di persone malati di Aids che hanno compreso il mistero di Dio, e occorre essere pronti a cogliere nel malato i segni di quel mi­sterioso incontro e ad ascoltarlo.

Vengono alla mente le parole di papa Giovanni XXIII, che volle seguire passo passo la sua morte e che, tenendo davanti a sé un Crocifisso, mormorava con gioia, serenità e speranza:

«Quelle braccia allargate dicono che egli è morto per tutti, proprio per tutti. Nessuno, nessuno è respinto dal suo amore e dal suo perdono».

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