In occasione della festività di sant’Ambrogio, pubblichiamo di seguito il testo del primo Discorso tenuto da Carlo Maria Martini, il 6 dicembre 1980, come Arcivescovo di Milano: Dare a ciascuno una voce. Nel nostro Archivio digitale sono disponibili i “Discorsi di Sant’Ambrogio” pronunciati dal 1982 al 1994. Altri testi verranno progressivamente caricati.
DARE A CIASCUNO UNA VOCE
S. Ambrogio maestro attuale di comunicazione nella verità
Quando sant’Ambrogio fu eletto vescovo, la chiesa era divisa. Si combattevano tra di loro diverse dottrine e opposte tendenze, così come nella primitiva chiesa di Corinto c’era chi diceva : «Io sono di Paolo» e chi ribatteva «Io invece sono di Apollo» «E io di Cefa» (cf. 1Cor 1, 12). Lo stesso Ambrogio nel discorso per la morte del fratello, lamenta che v’erano al suo tempo tanti che non avevano «mantenuto la fede verso la chiesa, permettendo che se ne strappassero come le giunture e se ne lacerassero le membra » (La dipartita del fratello, n. 47).
Anche la società civile era divisa nel doloroso trapasso tra due epoche, nello scontro tra la tradizione romana e le nuove forze emergenti. Era un’epoca sanguinosa e travagliata e gli uomini, invece di scambiarsi tra loro i beni e i valori delle differenti culture, sceglievano la logica del conflitto, il metodo delle fazioni.
Sant’Ambrogio, cercando di riportare net cuore di ogni uomo il senso dei valori fondamentali della vita, operò instancabilmente per ricucire la rete dei rapporti tra le persone, per risanare i contrasti tra i gruppi, per instaurare la pace religiosa e sociale.
Insegnò lungo quali vie avviene la comunicazione tra le persone, insistendo da una parte sui doveri, su ciò che è «conveniente e onesto» (I doveri, I, 9) con un linguaggio che poteva essere capito da tutti gli uomini di buona volontà, e dall’altra sulle Scritture, da cui traeva gli argomenti che nutrivano i cuori e davano la certezza della comunione nella fede.
Un interrogativo attuale
L’interrogativo pratico che nasceva dai conflitti del tempo di Ambrogio si impone in maniera drammatica anche ai nostri giorni: è possibile comunicare tra gli uomini?
Talora la domanda si pone sul piano della cultura, anzi delle culture differenti e dei diversi linguaggi dell’esperienza umana che si affiancano o si scontrano senza cercare di capirsi.
Più drammaticamente, forse, l’interrogativo si pone al fondo della realtà quotidiana: è possibile comunicare davvero in chiave interpersonale tra i membri di una stessa famiglia? È possibile evitare quei conflitti tra gruppi e tra ideologie che degenerano perfino nella violenza che insanguina le nostre strade, e riempie di sempre nuovi lutti una nazione già tanto provata dal recente terremoto?
Contemplazione e comunicazione
Abbiamo un irrefrenabile bisogno di comunicazione vera, autentica tra noi.
Abbiamo bisogno di impararne di nuovo l’arte, di ritrovarne le radici, che si situano nel cuore e nell’esigenza ultima della persona. Per questo motivo ho scritto recentemente una lettera pastorale su La dimensione contemplativa della vita, È a partire da questi valori profondi dell’essere, in quanto distinti da quelli dell’avere, del fare, del potere, che si rende; possibile il riaprire i canali della comunicazione tra le persone.
Vorrei questa sera, nel ricordo e nella venerazione di sant’Ambrogio, esporre qualche riflessione soprattutto sulla comunicazione nella società e nella vita civile e sul comunicare umano e interpersonale in situazioni di particolare disagio, come è quella dei fratelli malati e handicappati.
Mi spinge a questa seconda considerazione specialmente il fatto che sono oggi qui presenti numerosi operatori sanitari, dai medici agli infermieri, dai volontari ai membri dei consigli di amministrazione, dalle varie «Croci», al personale religioso.
Colgo l’occasione per ringraziare di gran cuore tutti questi operatori per la loro generosa e appassionata dedizione a ogni uomo e donna malati e per lo sforzo che compiono e compiranno, insieme con le autorità, perché la riforma sanitaria recentemente entrata in vigore e la ristrutturazione del servizio sanitario che progressivamente ne deriverà, tengano sempre al centro dell’attenzione il malato nella sua qualità di persona umana.
Anche l’imminente inizio dell’anno internazionale dell’handicappato, indetto dall’ONU per il prossimo 1981, mi spinge a dire qualcosa su un problema così importante per la nostra società quale è quello di assicurare una comunicazione profonda e autentica con tutti i fratelli handicappati.
Persona e cultura
Nessun uomo è un’isola, nessuno è capace di dividere perfettamente quello che è suo dall’altrui, quello che egli è da quello che sono gli altri.
Anzitutto, ciascuno dipende dagli altri più prossimi, che sono: madre, padre, fratelli, educatori, amici.
Ma al di là di questi rapporti, e sullo sfondo di essi, sta la comunità, la società umana, legata da molteplici vincoli, quali una tradizione, una terra, un ambiente civile, un linguaggio ; valori ideali e modelli di comportamento comunemente riconosciuti come normativi dell’«umano».
Alla radice ultima di tali vincoli sta l’identità profonda dell’uomo, la sua «natura» voluta dallo stesso creatore.
Ma la «natura» umana non perviene alla consapevolezza di sé, nell’individuo come nella società, se non attraverso una storia fittissima di rapporti, che nel loro insieme danno figura alla «cultura» umana.
La «cultura», per la sua intrinseca qualità, ha una storia, uno svolgimento graduale, fatto di progressi e anche di ricadute di memoria e di intuizioni creative, di dimenticanze e di rinnovate comprensioni dell’antico.
La persona singola può e deve certamente assumere un atteggiamento di consapevole distanza critica e di attivo contributo nei confronti della cultura comune; e tuttavia a tale autonomo discernimento essa perviene sul fondamento di un’educazione e di un apprendimento, che sono a loro volta debitori nei confronti della comune cultura del tempo.
Non è qui il luogo per approfondire questo discorso generale sulla cultura. Mi limito a richiamare quanto in questa stessa circostanza ha lucidamente espresso il card. Colombo nei discorsi di sant’Ambrogio rispettivamente del 1972 (Sant’Ambrogio e la cultura) e del 1978 (Il cristiano di fronte alla cultura).
Cultura e comunicazione pubblica
A noi interessa piuttosto notare che lo svolgimento storico della cultura propria di una certa società dipende in misura determinante dai modi e dalle qualità dei processi di comunicazione che in essa si realizzano. La stessa possibilità per la persona singola o per i gruppi intermedi di offrire all’attenzione comune un proprio originale contributo e, quindi, di concorrere al positivo incremento della cultura complessiva, dipende non poco dalla trasparenza, dalla libertà, dalla facilità maggiori o minori della comunicazione pubblica.
Ora nella nostra società, mentre assistiamo ad un sicuro incremento dei contributi scientifici e tecnici della cultura comune, costatiamo invece un allarmante deperimento dei contenuti morali e ideali in genere.
Senza negare altre gravi cause, pare indubitabile che per una parte significativa tale deperimento dipenda da distorsioni che si producono nei circuiti della comunicazione pubblica ; Il discorso dovrebbe qui farsi assai lungo e articolato: Occorrerebbe esaminare in particolare quanto di queste distorsioni sia attribuibile per esempio ai cosiddetti mass- media. Essi hanno un’importanza determinante nei processi di formazione dell’opinione pubblica e nella mentalità di comunicazione che inducono.
Sono evidenti i vantaggi che tali mezzi di comunicazione possono produrre in ordine alla diffusione dell’informazione e del sapere, alla libertà e alla franchezza del confronto tra le opinioni e quindi alla comunicazione in ogni suo aspetto. E tuttavia essi possono purtroppo operare anche in senso negativo sui processi di trasformazione del costume e dell’opinione pubblica.
I rischi a cui sono esposti i mezzi di comunicazione di massa sono stati ripetutamente denunciati: schematismo semplificante nell’informazione ; esasperazione dei conflitti; raffigurazione caricaturale e falsa delle opinioni da cui si dissente; sostituzione di interpretazioni congetturali o di sospetti all’informazione obiettiva; violazione di quella sfera di riservatezza il cui rispetto fa tutt’uno con il rispetto dei diritti della persona; esibizione sistematica di comportamenti deviatiti e di aspetti deteriori del costume per venire incontro ad attese altrettanto deteriori della curiosità pubblica. Si può applicare ad essi quanto Gesù, nel discorso della montagna, dice: «La lucerna del corpo è l’occhio ; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (Mt 6, 22-23). I mezzi di informazione e di comunicazione pubblica sono l’occhio della società. Se esso è limpido, la società si fa più civile; se è torbido, la società si degrada.
Comunicazione di massa e mentalità consumistica
Deprecare questo stato di cose non basta.
Occorre comprendere quali ne siano le cause. Esse possono consistere tra l’altro in un uso ideologico di questi mezzi, volto a creare persuasioni conformi all’interesse di gruppi di potere politico o economico, o nella loro sottomissione alla legge del profitto ad ogni costo e alla mentalità consumistica. Non ci si preoccupa di conseguenza di ciò che i messaggi trasmessi producano sotto il profilo della qualità della vita e della coscienza umana, ma unicamente di ciò che essi producono in vista del profitto o del potere.
Una decisiva risorsa da opporre a questi rischi della comunicazione è la formazione delle coscienze.
Occorre che l’educazione corregga la tendenza iscritta nella nostra vita dalla civiltà in cui viviamo, la «civiltà del benessere» o «dei consumi», a farsi semplici «consumatori» dei prodotti offerti dal mercato anche sotto il profilo della informazione e delle idee. Essa deve aiutare ciascuno di noi a costruirsi laboriosamente e criticamente una propria cultura, che, molto più che semplice «avere», è aspetto del nostro stesso «essere».
L’educazione delle coscienze può e deve essere attuata anche attraverso altri modi e provvedimenti, ad esempio la presenza nello stesso settore della comunicazione di massa di istituzioni, le quali, non mosse dà fini spéculativi e animate da spirito autenticamente libero, si propongano esplicitamente di promuovere l’informazione, la diffusione della cultura in genere e una visione del mondo rispondente all’uomo aperto alla trascendenza.
L’impegno della comunità cristiana
Inconveniente strutturale della comunicazione tra gli uomini realizzata attraverso i mass-media è quello di essere comunicazione a distanza, ossia tale da non consentire una immediata responsabilità di chi parla o scrive nei confronti dei suoi interlocutori. I messaggi si moltiplicano e si giustappongono, senza che in molti casi essi entrino in reciproco e fecondo confronto; Sotto questo profilo, essenziale correttivo della comunicazione pubblica è il fatto che esistano nella società civile luoghi nei quali sia possibile il vivo e immediato dialogo, in cui ciascuno risponda personalmente di quello che dice di fronte alla obiezione o alla diversa opinione dell’altro. I gruppi e le comunità nelle quali si realizza una tale comunicazione sottraggono in ciò stesso i singoli alla loro condizione di spettatori soli e passivi di fronte alle potenti voci pubbliche.
In questa luce ci appare con chiarezza lo straordinario contributo che può venire alla complessiva qualità della comunicazione pubblica nella società civile da parte della comunità cristiana. Perché si realizzi tale possibilità Occorre che la chiesa stessa promuova una opinione pubblica, che per un lato sia un valido punto di riferimento per la coscienza credente del singolo e un aiuto a orientarsi net dedalo di voci risuonanti nella società civile, e per altro costituisca significativa istanza critica capace di promuovere la serietà, l’obiettività, la responsabilità, nella comunicazione pubblica della società tutta.
Quanto ancora rimanga da fare ai cattolici italiani perché tali obiettivi siano realizzati deve essere oggetto di attenta e coraggiosa riflessione e quindi di impegno pratico conseguente. Ma subito e da tutti può essere avviato un più generoso impegno di comunicazione fraterna a livello locale.
In tutte le comunità cristiane e anzitutto nella famiglia, nella «chiesa domestica», che è la prima comunità cristiana, deve realizzarsi quella comunicazione vicina e «responsabile», capace di sottrarre il cristiano alle condizioni di solitario spettatore di messaggi pubblici, dei quali non sempre ha strumenti per verificare il senso e il valore. Ascoltare e vedere insieme, valutare e interpretare attraverso il dialogo reciproco, sottoporre i giudizi che la propria fede e la propria visione cristiana dell’uomo e delle sue espressioni sociali spontaneamente esprimono su fatti ed opinioni alla considerazione del fratello cristiano, è uno dei modi caratteristici nei quali può realizzarsi la comunione nella fede.
La sfida dei casi-limite della comunicazione
Il tessuto della nostra vita cittadina, che appare così vivo e dinamico ad un primo sguardo, nasconde tra le sue pieghe tante storie umane segnate dalla sofferenza, dalla forzata inerzia, dalla emarginazione, dalla solitudine. Pensiamo a cosa può significare ad esempio il fatto che a Milano, secondo una statistica recente, una persona su sette vive da sola.
Dobbiamo avere il coraggio dimetterci in dialogo con queste situazioni, perché ciò che le rende particolarmente dolorose non è semplicemente il carico di sofferenze che in esse è depositato, ma il fatto che il carico possa divenire inumano, cioè non sia conosciuto e condiviso dai fratelli, non sia inserito nei canali della comunicazione umana.
Penso a molti anziani, che alle angustie economiche devono aggiungere la più sottile angustia della solitudine — fino al caso limite di un anziano ritrovato cadavere nella sua stanza a un anno dalla morte. Penso a tanti malati, che, alla provvidenziale intensificazione delle cure mediche, vedono talvolta corrispondere una rarefazione di partecipazione umana alla loro vicenda. Penso alle famiglie che stentano a inserirsi nel contesto sociale e rimangono schiacciate dal peso eccessivo dei problemi economici, psicologici, educativi. Penso a parecchi disadattati e asociali, che sono diventati tali per le traumatiche disillusioni succedute ai miraggi prospettati dalla civiltà dell’opulenza e del benessere.
Vorrei, in questo momento, dare a ciascuno di costoro una voce, diventare la voce di chi non ha voce. Vorrei ripetere a questa immensa folla muta là parola liberatrice di Gesù: «Effatha! Apriti! Parla!» (Mc 7, 34).
La riattivazione della comunicazione con questi fratelli non costituisce solo un dovere di fronte alla gravità e all’urgenza con cui una situazione umana ci interpella, ma diventa anche una specie di sfida, che va accattata coraggiosamente: proprio l’impatto con questi casi-limite della comunicazione umana diventa un banco di prova, una verifica, un incentivo profetico per ogni altra forma di comunicazione. Infatti anche in un solo uomo escluso ingiustamente dalla comunicazione «si interrompe — come dice sant’Ambrogio — la comunione di tutta l’umanità, si profana la natura umana e la comunità della santa chiesa» (/ doveri, III, 3).
Non potendo soffermarci, in questo momento, su tutte le situazioni segnalate, mi limito a qualche considerazione sui problemi dei fratelli handicappati.
L’handicappato protagonista dell’inserimento sociale
Qualche cosa sta cambiando nel comportamento comune verso gli handicappati: non sono più nascosti nelle case, segregati, guardati con diffidenza. Certamente rimangono ancora molti passi da compiere. Purtroppo si verificano ancora incresciosi episodi di ottusità spirituale. Comunque una coscienza nuova sta maturando.
Opportuni strumenti legislativi, che suggellano lo sforzo pionieristico compiuto da individui ed associazioni di ogni genere, favoriscono la serena e costruttiva presenza degli handicappati nei normali luoghi di studio, di lavoro, di svago, di partecipazione sociale.
Si sta configurando un nuovo rapporto dell’handicappato con la società: egli non è più «oggetto» di leggi, di programmi, di interventi, di discorsi, ma diventa «soggetto», interlocutore responsabile, protagonista del suo inserimento sociale.
Inserimento sociale e opera educativa
Occorre però tener presente che l’inserimento va accompagnato con una paziente opera educativa, che prepari l’ambiente sociale ad accogliere costruttivamente l’handicappato.
L’opera educativa, poi, diventa ancora più urgente e articolata nei confronti dell’handicappato stesso. È impossibile che egli sia inserito in modo tale da comunicare veramente e fruttuosamente con le altre persone, se le sue capacità comunicative, più o meno gravemente compromesse dall’handicap, non vengono riattivate, riabilitate, educate. Qui entra in gioco una corretta visione della persona, che non si esaurisce in una rete di relazioni sociali, ma porta dentro di sé un mistero, una dignità, dei valori inviolabili, che essa deve imparare a scoprire, a portare a coscienza, a coltivare, per poi comunicarli agli altri.
Occorre riconoscere che una riabilitazione seria, anche se deve rispettare il più possibile il contatto familiare e sociale dell’handicappato, richiede tuttavia tempi specifici, tecniche appropriate, luoghi specializzati.
L’handicappato e il malato soggetti attivi di comunicazione
Ma non si tratta solo di intervenire sull’handicappato perché diventi capace di entrare nella società, ma anche di intervenire sulla società, perché diventi degna e capace di accogliere i valori che l’handicappato porta con sé. E qui il discorso si allarga anche a tutti i malati, a tutti i sofferenti. Essi possono diventare veramente soggetto attivo di comunicazione, in vista di una società più degna. Quanti valori, quante dimensioni umane, quanti reconditi significati della vita i cosiddetti sani o «normali» sono tentati di trascurare! Il malato, il sofferente, chiunque è debole o trascurato, invece, se viene cordialmente aiutato, può diventare per tutta la società un richiamo potentissimo, che riesce ad esprimere dal proprio cuore e dal cuore di chi è solidale con lui sentimenti ignorati e disattesi, quali il coraggio, la speranza, la non rassegnata sopportazione, la fraterna dipendenza reciproca, il senso del limite, l’attesa operosa di un mondo nuovo creato dall’amore di Dio.
Non stiamo vedendo forse anche in questi giorni come da una catastrofe si susciti uno slancio immenso di solidarietà?
Si apre qui un vasto campo di lavoro per le comunità cristiane.
Esse devono educare e preparare i credenti ad attuare una presenza insieme cordiale e critica in tutte le iniziative della società per chi è in difficoltà, sia a livello delle istituzioni, che erogano l’assistenza sanitaria, sia a livello degli organismi partecipativi di recente istituzione, che la programmano e la coordinano nelle diverse unità territoriali.
Simultaneamente la chiesa deve promuovere iniziative autonome sia dei singoli cristiani, sia delle comunità cristiane in quanto tali. Così facendo, le comunità cristiane, mentre obbediscono alle mozioni interiori della carità, che è la loro legge costitutiva, offrono anche un esempio di vivacità sociale, di vigile coscienza civile, di personale assunzione di responsabilità da parte dei singoli e dei gruppi che compongono il tessuto vivo della società. I problemi dei malati e degli handicappati, infatti, poiché sono problemi umani, prima che tecnici e legislativi, richiedono precisamente la mobilitazione capillare e responsabile di tutta la società civile, cioè delle famiglie e delle altre comunità spontanee che, proprio perché sì costruiscono nell’immediatezza e nella libertà, possono dare un volto autenticamente umano alle iniziative promosse per i fratelli in difficoltà.
Lo stile del buon samaritano
Naturalmente l’esempio delle comunità cristiane deve essere profetico e stimolante. Per questo non basta avviare nuove iniziative o difendere le istituzioni del passato. Bisogna che il servizio prestato, sia qualificato a livello tecnico-professionale e sia interiormente animato dallo stile inconfondibile della carità.
È lo stile che Gesù ha insegnato nella parabola del buon samaritano; stare davanti ad ogni uomo con la stessa purezza disinteressata e incondizionata dell’amore di Dio; accogliere ogni uomo semplicemente perché è uomo; diventare prossimo di ogni uomo, al di là di ogni estraneità culturale, razziale, psichica, religiosa; anticipare i desideri; scoprire i bisogni sempre nuovi, a cui nessuno ha ancora pensato; dare la preferenza a chi è maggiormente rifiutato; conferire dignità e valore a chi ha meno titoli e capacità.
Il riconoscimento di ogni uomo come figlio di Dio, inondato dai misteriosi doni della grazia, permette di accogliere ogni sofferente come un fratello che dona e riceve, secondo le leggi meravigliose della comunione dei santi.
La comunione in Cristo è l’inatteso, trascendente suggello delle varie forme di comunicazione umana; è la fonte inesauribile di sempre nuove forme di comunicazione; è l’esigente paradigma, nel quale la comunità cristiana deve misurare e rinnovare il proprio comportamento verso gli handicappati e i malati, quanto ai modi di accoglienza, alla catechesi, alla vita liturgica, alla valorizzazione dei carismi.
La comunione in Cristo è fonte di unità e garanzia di benefica diversità. In forza di essa «non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna, ma un solo uomo in Cristo Gesù» (Gal 3,28); ma, nel medesimo tempo, «noi che siamo un corpo solo in Cristo… abbiamo carismi diversi, secondo il dono che ci è stato fatto» (Rm 12,5-6).
Ci aiuti sant’Ambrogio, che armonizza nella sua figura la tradizione cristiana e la coscienza civile della nostra città, a mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo Paolo: «Amatevi gii uni gli altri come fratelli. Siate premurosi nello stimarvi reciprocamente. Siate impegnati, non pigri… Siate pronti ad aiutare i vostri fratelli quando hanno bisogno e fate di tutto per essere ospitali… Siate felici con chi è nella gioia. Piangete con chi piange. Andate d’accordo tra di voi» (Rm 12, 10-16).
Per la festività di s. Ambrogio,
6 dicembre 1980
Cronologia in breve