Il 15 febbraio 1997, giorno del suo 70° compleanno, il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, tenne un’omelia al Santuario della Madonna di Lampedusa in Castellaro, in provincia di Imperia (nella foto, il Santuario), alla presenza della sorella Maris e dei più stretti collaboratori. Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia tenuta da Martini. È uno dei documenti del “Fondo archivistico Curia arcivescovile di Milano – Ufficio per le comunicazioni sociali” relativi all’anno 1997, resi disponibili da oggi nel nostro Archivio digitale.
IL SIGNIFICATO DEL CAMMINO DELLA VITA
Ringrazio il Signore di poter celebrare il mio 70mo anno di età in un Santuario della Madonna, davanti a Maria alla quale so di dovere molto; con lei rendo grazie a Dio per i tanti benefici che mi ha donato fino ad oggi.
Sono particolarmente felice e grato di celebrare l’Eucaristia insieme a coloro che rappresentano questi settant’anni: mia sorella, che mi ricorda la mia famiglia, i miei genitori, gli inizi della mia vita; i miei collaboratori più stretti che mi ricordano gli ultimi diciassette anni di vita, i più intensi, i più ricchi di grazia e di doni divini, i diciassette anni di episcopato.
Vi sono molto riconoscente perché avete voluto, con mia sorella, trovarvi con me nel rendimento di lode al Signore, per l’intercessione di Maria. Ringrazio di cuore ciascuno di voi per il pensiero delicato e gentile di raggiungermi nel mio eremo, in un momento di silenzio e di raccoglimento, proprio per arricchire tale momento con una folla di memorie di persone e di situazioni vissute, a cominciare dalla mia famiglia fino al servizio della Chiesa di Milano.
Insieme alla gratitudine per voi che vi unite alla mia preghiera, esprimo anche riconoscenza al Rettore del Santuario e ai fedeli che rappresentano il popolo di Dio e quindi mi danno la grazia di vivere l’Eucaristia pure ricordando quanti hanno percorso con me il cammino di vita di questi anni.
Le sofferenze e i dolori dell’umanità
Che significato ha tale cammino?
Recita il Salmo 89: “Gli anni della nostra vita sono settanta/ottanta per i più robusti” (v.10). Settant’anni sono un periodo concluso, costituiscono un arco completo di vita, ci permettono di dare uno sguardo complessivo sulla nostra esistenza; il resto è un’aggiunta.
E lo sguardo complessivo ci è reso sensibile, visibile dalle due letture della Messa (Gen 3,9-24; Mc 8,1-10).
Il libro della Genesi ripete l’affermazione del salmista: gli anni della vita sono per lo più settanta e segnati da fatica e dolore. Il racconto della caduta di Adamo ed Eva ci ricorda, di fatto, l’ambiguità della vita umana, il degrado le sofferenze, tutte le forme di menzogna dell’umanità, che toccano il serpente, la donna, l’uomo, l’esistenza.
Guardando indietro posso dire che, per pura grazia del Signore, io sono stato risparmiato da molte di queste fatiche e ambiguità, pur se ciascuno riconosce di aver avuto parte al peccato della umanità. Tuttavia, anche se Dio mi ha risparmiato da tante fatiche e ambiguità, e finora da problemi gravi di salute, in tutti gli anni della mia vita ho partecipato alle sofferenze e ai dolori della gente. Soprattutto negli ultimi diciassette anni, ho condiviso in qualche modo tragedie e drammi inenarrabili che hanno colpito tante persone con le quali sono venuto in contatto, ho condiviso sofferenze umane al limite della sopportabilità.
E poi, mediante il ministero episcopale e la comunione con il Papa e con i Vescovi, ho avuto la grazia di partecipare a tutti i dolori dell’umanità, del mondo.
Dunque, esprimo gratitudine a Dio per il sentiero su cui mi ha fatto finora camminare, un sentiero piuttosto privilegiato, e insieme ringrazio i miei più stretti collaboratori che mi hanno risparmiato spesso fatiche e difficoltà o le hanno portate per me.
Come ho detto, in questi anni è stato forte il peso della partecipazione alle sofferenze di ogni tipo della gente: malattie fisiche, morali, situazioni di carcere, amarezze politiche, guerre e scontri fra le Nazioni, povertà e fame. Ma è ancora grazie alla sensibilità dei miei collaboratori e alla loro partecipazione al ministero del Vescovo, che sono entrato in contatto con tanti dei dolori di cui l’umanità è gravata. Di qui sono nati gli interrogativi che ho espresso all’inizio della mia lettera Parlo al tuo cuore (perché il dolore, perché la morte, perché i drammi?).
L’albero della vita
Ho potuto però cogliere, nella prima lettura, oltre ai dolori e alle fatiche, la nostalgia dell’albero della vita che fa capolino alla conclusione del racconto, dove si chiude la storia paradisiaca dell’uomo e si apre la storia infernale, purgatoriale dell’umanità. L’albero della vita, la cui via è custodita, è oggetto di nostalgia.
Mi pare che in questi settant’anni ho avvertito sempre vibrare sia in me sia in tante persone che ho avvicinato, direttamente o indirettamente, la nostalgia dell’albero della vita, nostalgia che si nutre di preghiere, di offerte, di speranze, di desideri e che ha poi nella Eucaristia il suo segno fondamentale e principale, quale frutto dell’albero della vita promessa e anticipazione della rivelazione definitiva della vita, della celeste Gerusalemme.
Riassumendo, la pagina della Genesi ci introduce a cercare di comprendere qualcosa del significato di una vita intera: partecipare ai dolori dell’umanità, di tanta povera gente e essere in sintonia con quella nostalgia e desiderio dell’albero della vita che è nel cuore di ogni creatura umana.
Il mistero della vita nella pienezza della rivelazione di Gesù
Il brano evangelico di Marco ci presenta ancora più chiaramente e fortemente il mistero dell’esistenza umana, come appare nella pienezza della rivelazione di Gesù. Notiamo l’immagine di molta folla, carica di fatiche e di sofferenze, che non ha da mangiare.
Di questa folla sono sottolineati i bisogni fisici, biologici, contingenti: due volte è ripetuto: “non hanno da mangiare”. Viene anzi sottolineato il fatto che per via verrebbero meno, che vengono da lontano. La pesantezza della condizione umana è qui espressa nelle quattromila persone davanti a Gesù. Sono là, affamate e incapaci di compiere il cammino necessario per tornare a casa.
Di fronte a questa folla bisognosa che siamo noi, che è l’umanità scacciata dal paradiso, in cerca dell’albero della vita, sta Gesù. Noi rappresentiamo la certezza fondamentale che possiamo avere: essere affamati di pane, di amore, di verità, di senso della vita; Gesù rappresenta l’altra parte della certezza, anzi l’unica certezza definitiva: Dio ci ama, ama l’umanità.
Su tutte le ambiguità, le fatiche del cammino, le resistenze, i drammi umani, si erge la sola certezza positiva, fondante: che Gesù ama i suoi, che ha compassione della folla, di ciascuno di noi, che vuole sfamarci e vuol farci trovare -come ad Elia- il pane necessario per arrivare al monte di Dio, l’Oreb.
Le nostre sicurezze sono fondate semplicemente sulla nostra fragilità, sulla nostra incapacità, ma la certezza che Dio ci ama è invece assolutamente irrevocabile e solo con essa possiamo uscire dalle ambiguità dell’esistenza. Noi non sapremo mai se davvero amiamo Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze; tuttavia sappiamo di essere amati, salvati, perdonati dall’Amore.
L’episodio della moltiplicazione dei pani ci insegna che la folla sa soltanto aver fame e Gesù sa soltanto aver compassione. Vi leggiamo il dramma, la ricchezza, la bellezza della nostra vita la cui unica certezza è di essere amata da Dio.
E con Gesù ci sono i discepoli, strumenti e ministri del suo amore. Noi ci riconosciamo dunque nella gente affamata e assetata, e anche un po’ nei discepoli che aiutano Gesù compassionevole verso la folla, distribuiscono il frutto dell’amore di Gesù e ne raccolgono anche le sporte di pezzi avanzati.
Nuovamente ringrazio voi -Vescovi ausiliari, Vicari episcopali, segretari, rappresentanti di tutto il clero perché collaborando con me siete annunciatori della certezza dell’amore di Dio per la gente.
Tale certezza ci è data visibilmente dal mistero di Maria, dalla sua materna premura, dalla sua maternità per la Chiesa e perciò le chiediamo di accrescere in noi la certezza dell’amore di Dio e di renderci collaboratori, corresponsabili della missione di Cristo Gesù. Certo, noi partecipiamo anche delle ambiguità umane, degli sbagli del mondo; in ogni caso rappresentiamo realmente l’amore e la compassione di Dio, che è indubitabile e non viene mai meno. Sarà quella compassione e misericordia ad accoglierci al termine del cammino della vita e ci permetterà di dire che il cammino verso Gerusalemme è concluso, che l’albero della vita è ormai nelle nostre mani, perché è la pienezza stessa di Dio che ci viene comunicata per sempre.
Cronologia in breve