Ci racconta il suo primo incontro col cardinale Martini?
Posso dire che per qualche fessura mi era sembrato di incrociarlo quando la notizia che era stato eletto vescovo di Milano mi raggiunse in una parrocchia in faccia a montagne e a lago, allora ero parroco a S. Giovanni in un quartiere di Lecco. Di lui si diceva che era un biblista e che frequentava per impegni pastorali le periferie di Roma, ricordo come la congiunzione delle due cose mi avesse profondamente affascinato. Un contatto più personale avvenne per un episodio che mi aveva allora molto rattristato. Erano i primi mesi della sua missione di vescovo. Nella parrocchia si era deciso di invitare per una memoria di Monsignor Romero, Padre David Maria Turoldo. L’invito aveva suscitato contrasti nell’ambiente ecclesiale della città: l’accusa era che la nostra scelta fosse in contrasto con le indicazioni dei Vescovi. Padre David, declinò fermamente l’invito. Ne fui molto rattristato, scrissi all’Arcivescovo per raccontare l’accaduto. Ricordo che lo invitavo a non rispondermi, immaginando l’ingombro delle lettere sul suo scrittoio. Puntualmente invece mi rispose, dicendosi dispiaciuto per l’accaduto, e confidandomi che avrebbe scritto a Padre David per dirgli quanto la cosa l’avesse rattristato. Pochi mesi dopo per la prima volta incontrò i preti del decanato. Mi accolse sorridendo dai suoi occhi azzurri: “Don angelo” mi disse “noi ci conosciamo”. Mi vide stupito. Aggiunse: “Ci siamo scritti a motivo di Turoldo”. Mi parlò di un vangelo oltre le barricate.
Quando vi siete visti per l’ultima volta? Siete rimasti in contatto durante gli ultimi anni e mesi? E’ mai andato a trovarlo a Gerusalemme?
Mi capitò di incontrarlo a Gerusalemme in occasione di un nostro pellegrinaggio: quel giorno ci raccontò della sua scelta di stare in una terra, quella dei Padri che lui amava, del suo desiderio di stare dentro un conflitto, in mezzo come un intercessore. Dal giardino in cui ci parlava alzò la mano a segnare la finestra da cui nelle prime luci dell’alba poteva contemplare il monte degli ulivi. Come se a preghiera si aggiungesse preghiera. Per l’ultima volta ho visto il cardinale all’inizio di quest’anno. Devo confessare che, dall’ultima volta in cui gli feci visita, mi costò fatica capire le sue parole, che in parte mi sfuggivano anche se amplificate al piccolo microfono. Ci si raccontava, ci si chiedeva l’uno dell’altro, poi gli occhi andavano alla stagione che stiamo vivendo: mi colpiva la sua lucidità senza sconti né sbavature sui giorni amari e nello stesso tempo la sua fiducia indiscussa. Quasi aveva il sapore di una sfida, una sfida nella potenza del vangelo e nelle imprevedibili insospettate vie dello Spirito, che, era solito dire, “arriva prima di noi e opera infinitamente meglio di noi”. Ricordo come, nonostante gli volessi risparmiare la fatica, volle apporre la sua firma sul libro in regalo. E ti salutava stringendoti nel suo abbraccio, quasi fosse un sacramento. Quel’ultima volta, vedendolo indebolito, quasi mi prese paura di fargli male stringendolo. E il pensiero mi corse al suo ultimo abbraccio a Padre Turoldo. Prima fu abbraccio nella chiesa di S. Carlo. Era il lontano 1983 e si dava una sua rappresentazione sacra, “La morte ha paura”, in occasione del Congresso eucaristico. Poi l’ ultimo abbraccio alla Rotonda dei Pellegrini, nel consegnargli il premio “Lazzati”. Ii Cardinale, ricordo, lo sfiorava dolcemente, quasi avesse paura di fargli male – già gli era stato fatto troppo male – sfiorava il suo corpo smagrito, esile, fragile, eppure trasparente. Lo abbracciavano le mani, ma già lo avevano abbracciato le parole del Cardinale: riconoscevano la profezia, riconoscevano incomprensioni dolorose del passato: “Oltre l’apprezzamento per ciò che sei, vogliamo fare atto di riparazione, vogliamo evitare di edificare soltanto sepolcri ai profeti, e dirti che se in passato non c’è sempre stato riconoscimento per la tua opera è perché abbiamo sbagliato”. Ora ero io ad abbracciare sfiorando per non far male. E lui a seguirti con gli occhi sino alla porta, senza staccare. Te ne andavi con la luce serena dei suoi occhi.
Martini, a chi non lo conosceva bene, poteva incutere forse un po’ di soggezione. Ci racconta com’era con gli amici e con i collaboratori più stretti? Intendo dire, come se lo ricorda lei, fuori dalle occasioni ufficiali, dagli incontri pubblici, dalle celebrazioni solenni?
Vorrei sottolineare nelle sue parole l’inciso che condivido pienamente “a chi non lo conosceva bene”. Era, la sua, una riservatezza che, a mio avviso, nasceva da una dose di timidezza, non invadeva il campo, non forzava la porta, stava sulla soglia. Sempre intento a capire. Ricordo come mi raccontassero di un Sinodo, in cui gli toccò di presiedere e come egli avesse ricordato ai suoi collaboratori di porre attenzione agli interventi dei vescovi ”minori” e come questi ultimi si fossero accorti della tenera attenzione del cardinale nei loro confronti e come di conseguenza portassero al segretario borsate di farmaci dei loro paesi per una presunto raffreddore dell’arcivescovo, che forse altro non era che un sintomo di una qualche timidezza. In queste ore mi sono anche detto che quella sua riservatezza non ha creato minimamente distanze: si prende distanze da chi invade, ci si apre a chi sosta ad ascoltare e a capire. Di quanto sia nel cuore della gente penso sia una manifestazione luminosa l’emozione e la commozione come quella cui stiamo assistendo, di tutto un mondo di credenti, di non credenti, di diversamente credenti.
Quando era vescovo di Milano, e anche dopo, Martini era diventato un punto di riferimento Per tante persone che speravano in un rinnovamento e in una maggiore apertura della chiesa alla modernità. Come viveva lui questa sua grande fama, l’aspettativa dei molti che speravano addirittura che lui diventasse Papa?
Non era uomo di carriera. Anzi metteva spesso in guardia da questa malattia che è la rovina della chiesa. Gli interessava Gesù e il suo vangelo, fuori dalle astuzie e dalle macchinazioni. Erano in tanti a parlargli dei loro sogni di una chiesa più libera, più accogliente, più affidata al vangelo. Condivideva i sogni. Percepiva che molti in lui riconoscevano il sogno. Invitava a resistere.
Quando il cardinale chiese di andare in pensione e di potersi ritirare a Gerusalemme, sembrava davvero stanco, affaticato da tanti difficili anni trascorsi a Milano, forse soprattutto da quelli del terrorismo, anni in cui dovette vedere tanto sangue e dolore, in una città illividita dall’odio e dalla violenza. Aveva sofferto molto in quel periodo?
Ha amato queste strade, ha pianto su questa città. Ma non era un pianto arreso. Era il pianto di chi intercede. Raccontava che gli capitava di ritorno nella notte nell’episcopio di indugiare dall’alto a vedere la città: il buio delle strade, le poche finestre illuminate. Che cosa dimorava al di là di quelle finestre, drammi e speranze? Pregava per la sua città.
Martini era torinese, ma secondo lei arrivò a sentirsi un po’ anche milanese, così circondato com’era dall’amore dei milanesi?
Certamente rimanevano le sue radici torinesi, scritte anche nella nobiltà del suo animo. Ma questa ormai era la sua città. Sentiva che la città era in ascolto, ben oltre i confini ecclesiastici. E la città era in ascolto perché la sua era una parola libera. Era come un accendere una lampada per il cammino, il cammino di tutti. Vorrei però anche aggiungere che non si sentiva fortunatamente imprigionato nella nostra città, sentiva la responsabilità delle chiese del mondo. Che andava a visitare con uno stile suo, anzi quello del vangelo, nella loro ferialità, non dai pallchi, ma nella vita ordinaria delle comunità. La ferialità. Mi colpì fin dall’inizio, il suo desiderio che le sue visite pastorali fossero nella ferialità. Incontrare la ferialità vuol dire incontrare la vita più vera della gente, quella quotidiana, che fa il tessuto normale delle nostre giornate. E la ferialità della visita diceva uno stile, un clima: il suo desiderio che dalla visita pastorale fosse rimosso ogni aspetto decorativo, ogni parvenza di esteriorità, ogni allusione alla maschera: la maschera nasconde il volto. Un vescovo viene per vedere da vicino, viene per conoscere: che senso avrebbe ostentare fumo o sequestrarlo sui palchi?Dall’alto dei palchi si conosce così poco di un popolo: un popolo lo conosci immergendoti, condividendo un cammino.
Quali sono gli insegnamenti più importanti che le ha trasmesso?
Ne colgo uno, non so dare precedenze. Tra i suo sogni sulla chiesa, questo: una chiesa che parla dopo aver ascoltato e solo dopo aver ascoltato. Raccontava di Gesù che nei vangeli prima apre le orecchie del sordomuto, poi le labbra, come a dire che se prima non si ascolta, ci escono solo parole vuote.
Fra i suoi libri, uno dei più conosciuti é stato quello intitolato “Conversazioni notturne a Gerusalemme”. A lei quale é piaciuto di più? (anche se certo è molto difficile fare una classifica fra le centinaia di testi che ha firmato)
Non so scegliere: ogni suo libro mi ricorda lo scriba del vangelo che dal tesoro trae cose nuove e cose antiche. Sì, mi ha colpito molto il libro che lei cita, il suo dialogo, non paludato, immediato, sincero, pieno di simpatia, con i giovani. Ma da bastian contrario vorrei proporre un esile piccolo libro, poco più di una lettera, dal titolo: “Va’ a Ninive, la grande città”. Dove l’invito è stare sui confini, una chiesa che sta al confine. “Non passa giorno – annota il cardinale- che tu non assista a questo silenzioso passare di uomini e donne dalla luce alle ombre e dalle ombre alla luce, dalla fede alla non fede e viceversa”. Noi dunque, secondo il Cardinale, chiamati ad essere compagni di viaggio, e quale viaggio, compagni di questi sconfinamenti, strade di fuga e strade di ritorno nella notte. Stare sul confine, per una sorta di innamoramento per questa realtà quotidiana, fatta di storie e di volti.
Martini arrivò a Milano semi sconosciuto ma ben presto seppe farsi conoscere e amare, anche fuori dalla cerchia ecclesiastica, diventando molto popolare. Lui però era ha persona schiva, amava anche molto la solitudine. Come viveva questa situazione? È vero che si prendeva spazi per stare solo, andando in montagna ma volta alla settimana a camminare e a meditare? E che qualche volta usciva dalla curia vestito in abiti civili per girare Milano senza essere riconosciuto?
Non solo si prendeva spazi per stare solo, ma li ha proposti a tutti noi con una sua lettera a sorpresa, la prima “La dimensione contemplativa della vita”. Contemplare per non diventare macchine della produzione, per dare senso alle cose, per viverle senza consumarle in un banale usa e getta. Ricordo che si era riservato il mercoledì mattina per una uscita da Milano, un tempo per un sosta e spesso la sosta era sui sentieri delle montagne, a volte anche in parete, anche quelle della Medale su Lecco, che scalava alle prime ore del mattino, spesso in compagnia di due compagni gesuiti fedeli, Silvano Fausti e Filippo Clerici.
Che ricordo di lui serberà nel suo cuore, adesso che il cardinale ha lasciato la vita terrena?
Quello del pastore di Palestina che cammina davanti al gregge. Indica un orizzonte, ma nello stesso tempo non accelera oltre misura il passo, ha compassione della pecora ferita e di quella gravida. Il pensiero mi corre a un gesto, quello che fu dell’inizio, quel suo ingresso così inusuale. Camminava confuso tra la gente: non era processione, non era corteo, era cammino. Ci sembrò di capire: uomo del cammino e non del palco, uomo della strada e non delle parate. Niente cordoni, niente posti riservati, niente separatezze. Così è stata la visita di Dio: Gesù di Nazareth, uomo della strada, Dio della ferialità e della condivisione.
la Repubblica, 2 settembre 2012