Dialogo ebraico-cristiano, un albero che dà ancora frutto
Un gruppo di ebrei e cristiani italiani ha compiuto in giugno un viaggio in Terra Santa per fare memoria di due anniversari, intimamente legati: la scomparsa del cardinal Martini, il 31 agosto di un anno fa, e i cinquant’anni del dialogo ebraico-cristiano nato dal Concilio. La delegazione ha piantato un albero sulle rive del Lago di Tiberiade, il primo di una serie che andrà a formare una foresta in ricordo dell’arcivescovo di Milano. Di seguito il racconto di un gesuita che ha partecipato al viaggio.
Radunati all’ombra di un albero solitario, il gruppo dei viaggiatori improvvisa un primo momento di impressioni del viaggio in Terra Santa che sta per terminare. Un viaggio particolare, che si è tenuto dal 9 al 19 giugno e al quale hanno preso parte esponenti cristiani ed ebrei per ricordare il cardinale Carlo Maria Martini, i 65 anni dello Stato di Israele e i 50 anni di dialogo ebraico-cristiano nato dal Concilio Vaticano II. Rav Elia Richetti richiama la necessità di crescere insieme. Per monsignor Gianantonio Borgonovo bisogna «continuare a lavorare sul fondamento», un fondamento non immediatamente visibile, ma robusto, efficace e affidabile. Rav Giuseppe Laras è ricordato con affetto: è lui l’ispiratore del viaggio, costretto a viverlo da lontano per motivi di salute. Rav Laras che non manca mai di richiamare l’importanza della memoria («Il ricordo è l’imperativo del nostro tempo. Suo scopo è seminare nella società il rifiuto della violenza») e la sua amicizia con il cardinal Martini. Proprio il cardinal Martini ci raccoglie attorno a sé. Presenza costante. Al termine di questi giorni riascoltiamo un passaggio dell’omelia nella Messa celebrata durante il pellegrinaggio diocesano a Efeso (2002), rimasto nella nostra memoria: «Mi piacerebbe riassumere tutto il mio ministero più che ventennale a Milano con l’augurio: “La vostra gioia sia perfetta”. Un augurio, una parola semplicissima, ma di cui abbiamo paura. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, tante le situazioni sbagliate, le guerre, le sofferenze: con tali giuste ragioni noi ci priviamo della gioia perfetta. Ma gioia perfetta non vuol dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame nel mondo; è una gioia più profonda dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando che non sia per noi, che stoni di fronte al coro di lamentele proprio della nostra società occidentale […] Chi va a Gerusalemme non fa conto di ciò che può accadere ma vuole compiere la corsa, vuole rendere testimonianza alla grazia di Dio e sa che chi perde la sua vita la troverà; si affida quindi alle parole di Gesù nel Vangelo».
INSIEME SULLA SPIANATA
Dalla «collina della tranquillità», sede dell’Israel Museum scendiamo al Kotel. Ci arriviamo con negli occhi il plastico della Gerusalemme dell’età erodiana. Capiamo meglio che il Kotel è solo una piccola parte del muro di contenimento su cui sorgeva la spianata del secondo tempio. È appena arrivata la notte. Le pietre sono ancora calde. Il nostro gruppo non è che uno dei tanti che arrivano e vanno. Tuttavia, nel mondo in bianco e nero su fondo ocra del Muro, una kippah rossa (quella del cardinale Francesco Coccopalmerio) spicca subito e attira curiosità. Domande di senso più che ostilità. Perplessità e stupore più che contrarietà. Inizia la preghiera dei «salmi delle salite». Cantati in ebraico e ripresi in italiano. Anche la preghiera pubblica a voce alta attira curiosità. Si prega a voce alta. Insieme ebrei e cristiani. E con gli stessi testi. È una prima volta anche questa. Dentro di noi forse le stesse domande delle altre persone che vengono qui a pregare.
La giornata non è finita. Verso le 23 visitiamo il Kotel nel suo sotterraneo. Ci (re)immergiamo negli strati di una storia che chiede di essere ascoltata. Le pietre parlano. Raccontano di fede, conflitti, identità celebrate e infrante. Di sangue e di sacrifici. Annunciano anche un futuro dove scavare vorrà dire trovarsi e riscoprire che poggiamo sulla stessa «roccia che ci ha generato». Pensiamo alla felice coincidenza, la preghiera insieme al Kotel e la discesa nel suo cuore di pietra. In attesa di un cuore di carne.
Andando verso Givat Avnì, dove sarà inaugurata una foresta dedicata al cardinal Martini, percorriamo la strada che passa accanto al Giordano (il «povero, umile, disperato fiumiciattolo verde» come lo definì Pier Paolo Pasolini nei Sopralluoghi in Palestina). Le colline di Samaria sfilano a sinistra e quelle della Giordania a destra. Sulla strada che ci porta in Galilea visitiamo gli scavi di Silo, la città cananaica conquistata da Giosuè, dove l’Arca trovò una prima sede, dopo essere stata sotto una tenda; il centro della testimonianza di Samuele e del tempio dove Anna sfogò la disperazione della sua sterilità. Mentre procediamo, sul bus c’è modo di partecipare a uno scambio sul dialogo ebraico-cristiano. Si toccano punti delicati, come quello dell’asimmetria e della diversità irriducibile: l’ebraismo può pensarsi senza il cristianesimo, ma non viceversa. Il dialogo deve rispettare la distanza riconoscendo e resistendo sempre alla tentazione di inglobare l’altro nel proprio orizzonte.
C’è tempo anche per toccare la mai completamente sopita tentazione del «marcionismo», la dottrina che prese spunto dalle riflessioni del vescovo Marcione da Sinope che intendeva contrapporre il Dio dell’Antico Testamento a quello del Nuovo e a «depurare» i passi delle Scritture che sono abitati da un’immagine «imperfetta», propria, appunto, delle pagine dell’Antico Testamento. La Chiesa ha reagito a questa linea interpretativa, ma l’ha fatto pagando il prezzo alto della riduzione ad allegoria dell’Antico Testamento.
L’ALBERO DELLA CONVIVENZA
Intanto, arriviamo in vista del Lago di Tiberiade. Pasolini lo immaginava «come un immenso mare». Incontrandolo, gli diede un’impressione di «grande modestia, grande piccolezza, grande umiltà». Un luogo brullo e battuto dal vento. Occorre immaginarlo popolato da un bosco di cinquemila alberi: Givat Avnì avrebbe dato a Pasolini una decisiva «lezione di umiltà», la comprensione che tutta la vita di Gesù «sta dentro un pugno». Raccolti sotto un tendone che ci ripara dal sole, ma non dal vento, ascoltiamo gli interventi che ricordano il cardinal Martini e il senso del nostro essere raccolti nella sua memoria viva. «Noi dobbiamo ricordarlo – osserva Vittorio Robbiati Bendaud, collaboratore di rav Laras – non solo come grande intellettuale e uomo di Chiesa, ma soprattutto come uomo di Dio, amante della Bibbia e quindi di Israele». «Il legame tra uomo e albero nelle pagine del Talmud è esplicito – aggiunge rav Richetti -, l’albero è decisiva presenza simbolica nel passaggio da una generazione all’altra, come segno della convivenza possibile».
Esprime «vivo compiacimento» anche papa Francesco per questa nuova pagina di «amicizia tra ebrei e cristiani». Lo fa attraverso il cardinale Coccopalmerio, il quale ricorda come Martini incoraggiava questa amicizia anche con argomentazioni teologiche: «Occorre superare la “teologia della sostituzione” – esortava – e tornare a sperimentare Israele come la radice santa su cui la Chiesa è impiantata». Monsignor Borgonovo, portando il saluto del cardinale Scola, arcivescovo di Milano, sottolinea: «Una della ragioni per fare festa è che siamo in un luogo simbolico per gli ebrei, dove sorse una comunità dopo la distruzione di Gerusalemme e il folle tentativo dell’imperatore Adriano di distruggere ogni traccia degli ebrei». Inoltre, ricorda l’impegno della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano per finanziare la parte restante dei cinquemila alberi messi a dimora.
«L’amore e la predilezione di padre Martini per questa terra così particolare e unica aveva l’eco della cura, del senso di responsabilità che si riassumeva nella passione per Gerusalemme, luogo che raccoglieva, nella sua sensibilità, tutte le domande più profonde degli uomini e delle donne di ogni tempo – scrive Adolfo Nicolàs, Padre Generale dei gesuiti -. Facciamo nostro questo invito alla cura, all’accoglienza di chi è lontano e straniero e, anzitutto, dell’altro che abita la stessa terra da sempre, alla responsabilità per cammini di pace: piantare una foresta in onore di Carlo Maria Martini significa anzitutto questo. Senza fare pace con Esaù, il fratello simile e dissimile, anche Giacobbe non può trovare pace».
Maris Martini, sorella di Carlo Maria, e suo figlio Giovanni chiudono la sequenza di testimonianze e riflessioni con parole semplici che ognuno di noi avrebbe voluto ascoltare: «Se fosse qui, Carlo Maria Martini direbbe che questi alberi così piccoli non devono far paura: sapranno crescere».
www.popoli.info, 23 luglio 2013